Tornate domani
(liberamente ispirato alla poesia E domani… di D.M. Turoldo)
Sono andati via, tutti. L’ultimo ha spento le luci, abbassato la serranda, inforcato la bicicletta, e si è immerso tra la gente. Resto io, a vegliare su tavoli, pennelli e scaffali, lambiti dalle luci della strada, che appena si affacciano a sbirciare dalla vetrina. Solo pochi minuti fa, qui dentro era un’allegra giostra di luci e di colori, che brillavano per gli occhi di questi miei amici artisti e dei visitatori, volti noti o passanti curiosi, che hanno voluto superare la mia soglia.
Ma domani vi rivedrò, amici miei. Mi saluterete, come ogni giorno da dieci anni: “Buongiorno Div.ergo!”, e poi vi sparpaglierete, ognuno al suo ritmo, a lasciare le giacche, firmare il foglio delle presenze, pulire, raccogliere il materiale di lavoro. E poi vi vedrò raccogliervi tutti intorno a questi due tavoli, ancora ansiosi di raccontarvi la cena di ieri sera, l’incontro con gli amici, o quello con le vostre “nonnine”. Non posso rispondervi quando mi salutate, ma mi piace guardarvi, e ascoltarvi. Sapete, dieci anni sono un respiro a fronte dei secoli che, modestamente, porto con una certa eleganza (un po’ di polvere dai muri me la dovete pure concedere: sono anziano, io). Non saprei dirvi se quelli che abbiamo vissuto insieme sono i più belli della mia storia. Di certo, sono anni felici.
Devo ammetterlo. Quando siete arrivati mi siete parsi un po’ strani, una combriccola un po’ sgangherata ma allegra. Pian piano vi ho visti crescere, diventare più abili nel padroneggiare le vostre arti. Vi ho visti dipingere, modellare, cucire e assemblare la vostra vita insieme, di pari passo con le vostre opere. Se potessi parlarvi, vi direi: a te, Giulio, direi che sei cambiato molto, da quando sei arrivato. Sei migliorato. E a te, Giuliano, farei i complimenti, per essere ancora qui dopo tanti anni, perché, come dici tu, “di questi tempi perdere il lavoro è più facile che trovarlo”. A te, Lucy, direi ogni giorno, esattamente come il primo giorno, “Benvenuta! Qui puoi stare finalmente in compagnia”. E tu, Laura, continua a impegnarti al massimo. Federica: tu, per favore, smettila di riprendere le palline di resina più del necessario. Lo sai bene che è peggio… E smettila di dire che te ne vuoi andare, sai bene pure che mi mancheresti troppo. A te, Gabriele, ricorderei i primi tempi, quando ha imparato a fare i quaderni, e ti direi “Non distrarti, falli bene!” E naturalmente, direi qualcosa pure a Gianluca: “lascia stare quelle campanelle, che ogni volta che le prendi ne rompi una…”
Ma lo sapete bene, sono di pietra e non mi è stata data la parola. Ci pensano i miei muri a parlare. Possono ben sopportare le ferite dei mille chiodini, gli strappi del nastro adesivo, ogni volta che appendete un orologio, una fotografia, una poesia. Perché ogni volta, a quei chiodini e a quel nastro adesivo, è appeso un pezzo di storia che anche io posso raccontare a questa città e ai suoi visitatori. Sì, quello che custodisco dentro di me è un mistero svelato, una buona notizia per tutti.
Il laboratorio